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Roma città meticcia. Iniziativa in ricordo di Giorgio Marincola con BLM Roma.

Roma città meticcia. Iniziativa in ricordo di Giorgio Marincola con BLM Roma.

Non sento la patria come un colore qualsiasi sulla carta geografica, ma patria e libertà per tutti i popoli del mondo” (Giorgio Marincola). 

Due giorni dopo la resa ufficiale della Germania in Italia, alla fine della seconda guerra mondiale, il 4 maggio del 1945, un’autocolonna di SS in ritirata, dopo uno scontro a fuoco attaccò i villaggi di Stramentizzo e Molina di Fiemme, dandoli alle fiamme ed uccidendo rispettivamente 21 e 6 persone. Tra i 21 di Stramentizzo i partigiani erano undici. Uno di loro era Giorgio Marincola. Quando il giorno dopo, gli inviati del Comitato di Liberazione Nazionale di Cavalese trovarono, nei luoghi dell’ultima strage nazista in Italia, il cadavere di un ragazzo di colore, nessuno sapeva esattamente chi fosse… ”È un medico sudafricano”, esclamarono i cronisti distratti. “È un partigiano negro caduto per la causa dei fratelli bianchi”, affermarono altri presenti. 

Ci sono voluti quasi 20 anni prima che l’Italia lo conoscesse e lo riconoscesse. Venti anni in cui il nipote, Antar Marincola, ha dato vita a un lungo percorso di recupero della memoria: Giorgio Marincola, il “partigiano nero” onorato con la Medaglia al valor militare perché morto combattendo nella resistenza. A lui si voleva intitolare una fermata della metro C di Roma. La richiesta di modifica del nome era già partita un paio di anni fa, quando con la mozione dell’Assemblea Capitolina numero 68/2020, si chiedeva di chiamare la fermata “Marincola”, in onore al partigiano italo-somalo. Come annunciato un paio di settimane fa dall’assessore Eugenio Patané la stazione Amba Aradam/Ipponio della Metro C si chiamerà invece “Porta Metronia” con la motivazione che le stazioni devono avere nomi legati alla toponomastica…Al tempo della mozione, nell’agosto 2020, dopo l’ondata di proteste legate al movimento Black Lives Matter, seguite all’omicidio di Georges Floyd, avvenuto a Minneapolis il 25 maggio dello stesso anno, la stazione della metropolitana, ancora incompleta, si sarebbe dovuta chiamare “Amba Aradam-Ipponio”, in riferimento alla famigerata battaglia di Amba Aradam durante la campagna militare italiana in Etiopia del 1936, nella quale i fascisti commisero crimini di guerra con l’utilizzo, tra l’altro, di armi chimiche…Le trattative per intitolare comunque, almeno in parte, la stazione al partigiano Marincola sono ancora in corso. 

Giorgio Marincola nacque il 23 settembre 1923 a Mahadaay Weyn, un presidio militare italiano a nord di Mogadiscio, in quella che allora veniva chiamata la Somalia italiana, da un sottufficiale italiano, Giuseppe Marincola (Pizzo Calabro 1891-Roma 1956) ed Aschirò Hassan, una donna somala nata nel 1901 a Xarardheere, cittadina a 500 km a nord-est di Mogadiscio. Due anni dopo, nel settembre 1925, nacque la sorella Isabella. Giuseppe, a differenza di molti coloni italiani dell’epoca che non riconoscevano le/i figl* nati da unioni con donne somale, riconobbe i due bambini, dando loro la cittadinanza italiana e portandoli l’anno dopo, con sé in Italia. In Italia, Isabella diventò un’attrice ed ebbe anche una parte in “Riso amaro” del 1949, mentre Giorgio, dopo aver passato l’infanzia presso lo zio paterno e sua moglie a Pizzo Calabro, si trasferì a Roma per frequentare il liceo-ginnasio Umberto I, nei pressi della basilica di Santa Maria Maggiore, non lontano dalla stazione Termini. Qualche anno più tardi, nel 1938, conobbe Pilo Albertelli (Parma 1907-Roma 1944), suo insegnante di storia e filosofia, antifascista noto alla polizia, in seguito partigiano nelle file del Partito d’azione a Roma, dove morì nel 1944, ucciso nella strage delle Fosse Ardeatine. Giorgio, dopo aver portato avanti brillantemente gli studi scolastici a Roma ed essersi iscritto in seguito a medicina, rimase conquistato dall’idea antifascista e nel 1943, quando il paese in cui era nato era ancora sotto il dominio italiano, entrò nella Resistenza. La storia di Marincola, raccontata da Carlo Costa e Lorenzo Teodonio in “Razza Partigiana”, edizioni Iacobelli, ci racconta che fu l’unico partigiano di colore decorato alla memoria e che in soli 22 anni di vita fu prima cittadino italiano e poi additato come meticcio dalle leggi razziali. 

Il 23 settembre scorso abbiamo organizzato una conferenza-dibattito nella nostra sede sulla figura di Giorgio Marincola. L’abbiamo considerato un partigiano emblematico, la cui storia consente una serie di riflessioni aperte, sia sul senso della resistenza reale ai sovranismi autoritari, sia, in quanto discriminato dal colore della pelle, anche sui mondi di oggi, legati alla nuova immigrazione, alla diversità, alle difficoltà dell’integrazione. Alla conferenza-dibattito hanno partecipato il prof. Antar Marincola, nipote di Giorgio, e il dott. Lorenzo Teodonio, autore di diversi libri sulla lotta partigiana con interventi e contributi di diversi compagni del Gruppo. 

Il percorso che stiamo portando avanti come Gruppo Anarchico Mikhail Bakunin – FAI Roma & Lazio, anche all’interno di Black Lives Matter Roma, ci ha recentemente portato ad aprire un dibattito di movimento anche sulle norme che regolano il permesso di soggiorno e l’acquisizione della cittadinanza italiana. Queste norme sono frutto delle politiche repressive e razziste da parte dei vari governi che si sono succeduti e che tutt’ora si susseguono, nonché di quelle messe in atto da praticamente tutti i partiti dell’arco costituzionale. Tali politiche assumono un ruolo fondamentale con risvolti culturali, politici e sociali che si abbattono in maniera devastante sulla vita di molte persone razzializzate, favorendo, ad esempio, lo sfruttamento schiavistico sul lavoro o aumentando il rischio di esser segnalati al potere esecutivo durante le cure mediche (il che porta molte persone ad autoescludersi dai percorsi di prevenzione da malattie anche mortali o a non curarsi in ospedale per paura di ritrovarsi rinchiusi nei CPR).  

Si aggiungano l’estromissione di fatto da alcuni percorsi formativi universitari come l’accesso al programma Erasmus o alle borse di studio attraverso iter burocratici impossibili, le pesanti limitazioni nei percorsi sportivi professionali, per non parlare dell’esclusione da alcune agevolazioni economiche sociali come i bonus energia e gas, il reddito di cittadinanza o di emergenza (che è, tra l’altro, già stato affossato dal governo Draghi a partire da quest’anno).  

Il razzismo sociale e le dinamiche di ghettizzazione imposte dalle politiche governative nazionali e locali oltre a compromettere le relazioni interpersonali, intimidiscono le persone razzializzate esponendole, tra l’altro, alla continua minaccia dell’espulsione anche solo per bagatelle giudiziarie.  

Sulla base del falso mito degli “italiani brava gente”, il razzismo è un tema ancora sostanzialmente poco dibattuto nel paese e spesso e volentieri le istanze razziste partono indirettamente dalle istituzioni per diffondersi a macchia d’olio nella società civile: la marginalizzazione è la conseguenza di leggi che razzializzano gli spazi, che ostacolano la concessione della cittadinanza o l’eventuale arrivo sul territorio identificato come italiano. 

Le leggi sull’accoglienza e sulla cittadinanza in Italia sono in continua evoluzione razzista fin dai primi anni del secolo scorso. Alla fine dell’ottocento, in pieno periodo coloniale e di emigrazione, si cercava contemporaneamente di inibire le unioni tra individui ritenuti di colore diverso e di mantenere i rapporti con gli “italiani emigrati”. 

Il razzismo italiano in materia di cittadinanza si colloca nell’ambito dello ius sanguinis, che venne codificato con una legge del 1912. Tale legge oltre ad essere razzista era anche palesemente patriarcale, prevedendo, infatti, la sola trasmissione maschile della cittadinanza. Una cittadina italiana che avesse, ad esempio, contratto matrimonio con un “cittadino straniero” assumendone direttamente la cittadinanza, perdeva contemporaneamente quella italiana… mentre per l’uomo che avesse “preso in moglie” una donna “straniera”, la trasmissione della cittadinanza italiana dal marito alla moglie avveniva in automatico. Nel 1937, si proibì esplicitamente e definitivamente la mescolanza interrazziale nelle colonie di Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia. Su “Il Giornale d’Italia” del 14 luglio 1938 venne pubblicato con il titolo “Il fascismo e i problemi della razza” il Manifesto degli scienziati razzisti, anche detto Manifesto della razza. Un paio di mesi dopo venne emanato un decreto legge concernente la difesa della razza nella scuola, il “R.D.L. 5 settembre 1938, n. 1390 – Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola”. Il decreto sarà il preludio alla pioggia di “leggi razziali” che caratterizzerà il ventennio fascista. 

Nel 1947 la Costituzione italiana pare prendere le distanze dal passato, ma con l’impiego della parola “razza” all’articolo 3, i cosiddetti “padri costituenti” non sembrano voler derogare ad un concetto discriminante. La conferma di questa ambigua continuità col passato, nonostante la retorica antifascista, sta nel ribadire la preminenza del sangue per l’ottenimento della cittadinanza, attestata sia nelle norme del 1992 (legge n. 91 del 1992) che in quelle del 2006 (legge 8 marzo 2006, n. 124), approvate in anni caratterizzati dalla preoccupazione per i flussi migratori in Italia. Paradossalmente, mentre le/i figl* di “non italiani, nati e cresciuti in Italia” (che per di più devono sentirsi chiamare “immigrat* di seconda generazione”) sono obbligati ad aspettare il diciottesimo anno di età prima di poter richiedere la cittadinanza- il cui ottenimento poi è tutt’altro che scontato visto l’iter giuridico reso impervio da pretestuose lungaggini burocratiche- i discendenti di italiani emigrati, che a volte non sono mai stati in Italia, la ottengono senza particolari difficoltà. 

Lo Stato, riconoscendo i suoi cittadini attraverso la discendenza genetica, legittima un concetto razzista smentito dalla scienza: in questa prospettiva di bio-politica, per cui i dati biometrici assumono connotati discriminatori, il concetto di razza si trasforma nell’immaginario collettivo in quello di cittadino che detiene i “giusti” requisiti atti a conferirgli il suo ruolo socio-biologico. 

Quest’ambiguità, per un paese che solo formalmente si definisce antirazzista, si rispecchia nella normatura a tratti schizofrenica che fa capo a quelle ideologie sovraniste impegnate a propagandare la perfetta corrispondenza tra cittadinanza, etnia, territorio e nazione. L’impossibilità di una definizione netta per chi non rientra (il più delle volte a causa del colore della pelle) in questa visione ideologica unitaria, rappresenta pertanto una minaccia alla quale contrapporre il controllo autoritario. La presenza delle seconde generazioni etichettate come “meticce” sul suolo nazionale viene così frequentemente vista come un “problema”.  

Tra le soluzioni più auspicate dai vari ministri dell’Interno incaricati vi è la deportazione delle/dei giovani appena maggiorenni verso i paesi di origine del genitore marchiato come “straniero” prima che ottengano gli specifici documenti di idoneità, quasi che i/le figl* di immigratə tendessero per loro natura a un contesto culturale altro, quello dell’origine del genitore, sebbene mai conosciuto… mentre, se i/le bambin* sono adottatə da una coppia considerata italiana, rigorosamente cisgender e regolarmente sposata agli occhi dello Stato, qualsiasi sia il luogo di origine, questə acquisiscono, dopo cinque anni dalla trascrizione del decreto di adozione, la cittadinanza italiana.  

La richiesta di cittadinanza comporta l’obbligo di dichiarare un reddito non inferiore a novemila euro l’anno della durata di tre anni antecedenti la richiesta e che sia mantenuto per tutta la trafila burocratica dell’iter (che, in media, dura circa due anni): in assenza di redditi idonei non è possibile presentare domanda di cittadinanza. Per salvare la propria prole dalla fame e dalla povertà che le attanaglia per colpa dello stigma della “nerezza” e di un’integrazione quasi inesistente (che non permette loro di trovare facilmente un lavoro stabile), molte persone -per cultura e religione spesso non cattoliche- sono costrette ad abbandonarla in collegi od orfanotrofi gestiti privatamente (il più delle volte proprio da associazioni cattoliche). La mancata naturalizzazione delle identità di bambin* ne fa dei/delle verə e propr* “indesiderabili”. Per quanto nate in Italia, l’appartenenza delle seconde generazioni alla collettività viene percepita socialmente e politicamente come dubbia, motivo per cui diversi partiti politici ricorrono ai più beceri stereotipi per il dibattito parlamentare, giustificando la segregazione. Che dietro alla definizione di “meticcio” ci siano delle persone in carne ed ossa con eguali diritti è un fatto tanto ovvio quanto poco dibattuto dalla retorica sul tema. In molti casi in Italia, a differenza che in altri Paesi, chi vive questa frustrante situazione, è costrett* persino dai genitori al silenzio e non matura alcuna coscienza di classe, non organizzandosi, ad esempio, in un movimento di emancipazione sociale. Ragion per cui, all’interno del contesto Black Lives Matter Roma, stiamo cercando di intervenire culturalmente per invertire la tendenza insita nelle credenze collettive maggioritarie sul colore della pelle, cercando di valorizzare il ruolo di chi non si sente protagonista di movimenti di emancipazione, di lotta sociale e politica. A tale proposito oltre a quello sopra citato abbiamo organizzato ed organizzeremo varie iniziative, perché tali incontri possano dare degli spunti, essere come scintille che facciano divampare un dibattito più attento o rappresentare le tappe di un percorso di liberazione da ogni violenza e da ogni schiavitù. 

Black Lives matter, viva l’anarchia! 

Gruppo Anarchico Mikhail Bakunin – FAI Roma & Lazio

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